Disagio giovanile, lanciata la proposta di un patto educativo territoriale

UMBERTIDE – Mancanza di opportunità e prospettive, assenza di luoghi di socializzazione e di divertimento, genitori poco presenti, noia e apatia amplificate da due anni di pandemia che hanno fortemente compromesso le relazioni e la socialità.

È da qui che si deve partire, adottando soluzioni concrete di inclusione e socializzazione, e non di repressione, per affrontare il disagio giovanile ad Umbertide, tema che è venuto prepotentemente alla ribalta dopo la diffusione di video che mostrano giovani che fanno i bulli, si ritrovano in stazione e con il volto coperto da un passamontagna sparando colpi in aria con pistole giocattolo, e si danno appuntamento al Parco Ranieri per fare risse con coetanei di Città di Castello.

Le cosiddette “baby gang” ma anche il bullismo e più in generale la condizione giovanile sono stati i temi al centro dell’incontro pubblico, promosso da Umbertide Cambia – Civici per l’Umbria, venerdì scorso presso la Residenza Balducci. Presenti rappresentanti del mondo della scuola (in primis le dirigenti scolastiche Franca Burzigotti e Paola Avorio), dello sport (hanno partecipato numerose società sportive, dal calcio al basket, passando per pallavolo e judo), dell’associazionismo, del sociale e della politica (presenti i consiglieri di opposizione, assenti Amministrazione comunale e consiglieri di maggioranza).

L’iniziativa è stata promossa con lo scopo di affrontare la questione del disagio giovanile collettivamente perché, come affermato da Stefano Conti introducendo l’incontro, nessun settore può farcela, da solo, a risolvere il problema. Ed è per questo che tutti i soggetti presenti hanno condiviso e lanciato l’idea di dare vita ad un patto educativo territoriale, che significa promuovere progetti ed azioni concordate che siano di supporto ai giovani.  La stessa dirigente del campus Da Vinci, Franca Burzigotti, ha ricordato quel Patto educativo che fu lanciato nel 2005 (quando ricopriva la carica di assessore comunale) e che risultò vincente nella gestione di situazioni di disagio.

“Non si può intervenire in maniera repressiva, perché non si risolve il problema, e non si può nemmeno agire quando oramai è troppo tardi perché i ragazzi in difficoltà devono e possono essere individuati precocemente per poi intervenire subito – ha affermato la preside Burzigotti – Dobbiamo partire dal presupposto che nessuno nasce bullo né criminale e che i ragazzi cosiddetti “difficili” costituiscono una minoranza: ad Umbertide però mancano luoghi di positività dove i giovani possono divertirsi e socializzare, soprattutto durante la stagione invernale”.

Ed è in quest’ottica che, come spiegato da Diego Simonetti, assistente sociale che ha avuto in passato un’esperienza all’interno del Comune di Umbertide, dopo una serie di segnalazioni di atti di vandalismo in piazza Michelangelo, nel 2018 nacque l’idea di aprire un centro di aggregazione giovanile proprio nei luoghi di ritrovo dei giovani, con il supporto di operatori Asad e Unità di strada, per fare in modo che i ragazzi si riappropriassero di certi spazi e di conseguenza se ne prendessero cura. Oggi il centro, dopo lo stop causato dalla pandemia, sta muovendo i primi passi, e registra un’importante affluenza di giovani di età compresa tra 14 e 18 anni. Un punto di partenza ovviamente e non di arrivo, per mettere in campo misure di prevenzione primaria in grado di ridurre preventivamente le condizioni di disagio.

Un disagio che ad oggi è forte tra i giovani umbertidesi e che è stato esasperato dalla pandemia. “La pandemia ha acuito il divario sociale e l’impossibilità di socializzare ha avuto effetti devastanti sui giovani. – ha spiegato la dirigente dell’Istituto comprensivo Umbertide – Montone – Pietralunga Paola AvorioPer due anni abbiamo pensato solo alla salute fisica e non a quella mentale così oggi ci ritroviamo con ragazzi e ragazze che a 14 anni sono senza prospettive. Chi vive situazioni di disagio sfugge dalla socialità, dal mondo dell’associazionismo e dello sport; la scuola riesce ad includere e a coinvolgere tutti ma è una volta che suona la campanella e che si torna a casa che emergono le profonde differenze tra i ragazzi, tra chi dietro ha una famiglia che lo guida e chi non ce l’ha.

E poi ci sono i ragazzi di origine straniera di seconda e soprattutto terza generazione, che sono culturalmente distanti dalle loro famiglie ma al contempo si sentono ancora discriminati ed emarginati, come ha ben spiegato nel suo intervento il mediatore culturale Khalid Belkchach, e che quindi sono, in una parola, isolati.

Ma una speranza, importante, può arrivare dal mondo dello sport, perché lo sport costituisce per un giovane un’opportunità di crescita e di socializzazione e, in un’ottica di azioni concordate nell’ambito del patto educativo, si può rafforzare il ruolo che già ricoprono le società sportive, ovvero quello di luoghi positivi in grado di aiutare i ragazzi a non perdersi.

Ma per fare tutto questo serve una nuova cultura, che sia innanzitutto inclusiva, volta alla socializzazione e non alla repressone. E servono risorse, che ad oggi sembrano mancare nei bilanci dei governi sia nazionale che locale.