I francescani e l’economia al centro di un convegno

UMBERTIDE – Si è  concluso il ciclo di conferenze sulla storia della presenza francescana nella città. Nel corso dell’ultimo incontro, avvenuto nei giorni scorsi nel convento di Santa Maria della Pietà, è stato trattato il tema della “economia” francescana, cioè del ruolo del movimento francescano nel ridefinire l’etica economica in un periodo di grandi mutamenti come quello del XIII e XIV secolo. Relatore è stato padre Marco Asselle, docente e autore, fra gli altri,  del libro “Sorella economia. Da Francesco di Assisi a papa Francesco: un’altra economia è possibile?” e docente all’Istituto teologico di Assisi.

L’importanza dei francescani nella formazione di una visione economica, sembra paradossale per la scelta dell’ordine di rinunciare completamente alla proprietà, sia personale che collettiva.  Il relatore ha spiegato la genesi della iniziativa “Economy of Francesco” di cui è stato uno dei protagonisti e che ha visto oltre 1000 giovani partecipare ad Assisi a tavoli di lavoro su temi economici.

Sviluppando la storia del rapporto fra economia e francescanesimo, il relatore ha segnalato che la problematica  economica fu subito affrontata a partire dal significato da dare alla povertà. La povertà francescana in primo luogo era la rinuncia al superfluo e questo aveva anche conseguenze economiche perché rendeva più disponibili alcuni bene anche alle comunità, abbassando i prezzi di alcuni bene come conseguenza della legge della domanda e dell’offerta. La caratteristica dei francescani fu quella di avere una visione economica che non partiva solo da una teologia “astratta” ma teneva conto dei processi economici reali. Per esempio per quanto riguarda l’usura essa era proibita perché l’interesse veniva corrisposto non in conseguenza di una attività del prestatore, ma in funzione del tempo che passava. Siccome il tempo è di Dio, si riteneva illecito l’interesse. I pensatori francescani, come Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298)  però, conoscendo meglio il funzionamento della mercatura, segnalarono che il prestito impediva al prestatore di svolgere, con il denaro prestato, altre attività e quindi era lecito percepire un interesse che però doveva essere inferiore al guadagno che si sarebbe ottenuto con un’altra attività. Nel caso di prestito infatti il rischio di impresa era inferiore a quello di intraprendere una attività e quindi  un equo interesse doveva tener conto di questo elemento. L’Olivi approfondì anche il tema del valore dei beni che dipendeva anche  dall’interesse soggettivo  e non solo per il suo valore d’uso. Un bene desiderato di più costava maggiormente. Da queste considerazioni si nota come l’Olivi anticipò temi che poi sarebbero stati affrontanti dagli economisti classici come Ricardo.

Duns Scoto (1266-1308) filosofo e teologo soprannominato  doctor subtilis, diede un contributo a rivalutare il ruolo del mercante. Egli sottolineò l’importanza dell’elemento della fiducia come parte del lavoro del mercante il quale facilitava la conoscenza della qualità delle merci e che per questa funzione aveva un importante ruolo sociale. Anche in questo caso dunque il lavoro doveva avere un fondamento etico orientato al bene comune. Lo Scoto arrivava a dire che i regnanti dovevano curare  la presenza nei loro domini di mercanti capaci e affidabili, così come di soldati che proteggessero l’ordine e i confini. In sintesi per Scoto il valore del lavoro del mercante  dipendeva dal servizio che faceva portando sui mercati cose reperite altrove (ratium loci), dal tempo che passava fra l’acquisto e la vendita che doveva essere remunerato e dalla  assicurazione sulla qualità delle merci che l’esperienza del mercante assicurava. Il mercante doveva avere “reputazione” in questo suo ruolo che nasceva dalla competenza e dall’etica con cui svolgeva il suo lavoro.